PRISCA GROH, MORCOTE, PARCO SCHERRER
giugno-settembre 2017
Si può scrivere di una mostra a distanza, senza averla visitata ma soltanto immaginata?
Supponiamo di conoscere bene il lavoro dell’artista (in questo caso, Prisca Groh). Supponiamo di ricordare con relativa precisione l’ambiente che ospiterà le opere (sempre in questo caso, il Parco Scherrer di Morcote, parco delle meraviglie – o delle follie – plasmato negli anni da Hermann Arthur Scherrer [1881-1956], commerciante di tessili e artista giardiniere, viaggiatore appassionato d’arte e di cultura, che ha voluto così dare forma alle sue avventure, alle sue impressioni). Quattrocento chilometri più lontano, si tratta allora di unire conoscenza e ricordo, ragionamento ed emozione, in un contesto immaginifico tutto sommato in sintonia con questo giardino fiabesco sospeso sul lago.
Il giardino è una metafora potente e il viaggio ha molte forme. L’immaginario è una di queste. E allora, immaginiamo l’ingresso del parco in un pomeriggio di sole e di vento; le scale che salgono verso i pendii e i terrazzamenti; l’incontro con le prime presenze che abitano questo angolo di giardino, mediterraneo, rinascimentale e barocco: esseri fantastici e mitologici fra palme, cipressi e camelie. Acqua. Passo dopo passo, un camminare che si rivela sempre più iniziatico e meditativo. Anche il pensiero vaga, e chissà perché si posa su Bruce Chatwin, lo scrittore “nomade”, colui che ha raccontato le Vie dei Canti, i sentieri mitici degli aborigeni australiani: invisibili a tutti ma non a loro, questi sentieri ricoprono il territorio intero, gli spazi sconfinati dell’Australia, come una rete di mappe leggendarie. Chatwin ci parla di una visione aborigena in cui il walkabout, il camminare, l’andare, si associa al canto come atto primario e fondamentale di creazione – e di conoscenza – del mondo. Mappe leggendarie… non è così che potremmo definire i Fazzoletti di terra di Prisca Groh? O i sentieri che tratteggiano il parco fra realtà e visione?
“Faire un pas c’est faire un choix”: la mostra “En Marche”, organizzata dal Musée d’art du Valais e aperta da inizio giugno negli spazi del Pénitencier di Sion, evoca invece il cammino come impegno, impegno del corpo ma anche dell’anima, impegno sociale, simbolico e politico, in grado di trasformare il senso delle cose.
E non è stato forse un “piccolo passo” a segnare lo sbarco dell’uomo sulla luna?
Prisca Groh si accosta a questo luogo in punta di piedi e lo trasforma senza modificarlo. Si apre un dialogo sottile fra lo sguardo dei coniugi Scherrer e il suo, un passaggio osmotico, e non si sa più dove finisca l’uno e cominci l’altro in questa ricerca – così necessaria, oggi – di bellezza e di poesia, di riflessione e di consapevolezza.
Fa caldo, il venticello arruffa le foglie e crea giochi di luce come arabeschi. Il respiro è più rapido adesso, si suda un po’: l’impegno del corpo. All’improvviso, una parola: “Dignità”. Luccica su una tavoletta metallica piantata nella terra, come fosse il nome del cespuglio di felci appena oltre. E poco dopo ancora: “Dignità”. E di nuovo dietro la curva del viottolo. La dignità scandisce i nostri passi quasi volesse dare il suo nome agli alberi, ai fiori, a ogni cosa. Prisca Groh deve sapere bene che non è sufficiente pronunciarla una volta sola, questa parola cruciale, che bisogna ripeterla, cantarla, lasciarla risuonare, per ridarle finalmente un significato. “Dignità”: ecco la musica di fondo, la nota che accompagna e ritma le tappe dell’incedere, che invita alla sosta e al raccoglimento.
Siamo a un bivio, adesso. Quale direzione prevede il percorso? A quattrocento chilometri di distanza è impossibile dirlo, e allora via, lasciamoci alle spalle i due leoni di pietra che custodiscono un tempietto (o è una fontana?) e saliamo verso la costruzione aranciata dalle grandi vetrate: la limonaia. In questo spazio architettonico tipico dei nostri laghi, luminoso, in dialogo incessante con il cielo e con l’acqua, dalle pareti finemente affrescate, che sarà mai questo cerchio sul pavimento, così simile a uno stagno affollato di ninfee? Da quale continente avrà portato, Arthur Scherrer, questi strani fiori delicati? Ma i loro petali… non sono petali! Sono piccoli aeroplani di carta, e su ognuno di questi foglietti, venduti per strada dai bambini in Iran, ci sono versi del Diwan di Hafiz, il grande poeta persiano nato a Chiraz fra il 1310 e il 1337. Hanno attraversato l’aria come farfalle per posarsi qui. Ed è qui che Prisca Groh sintetizza nel modo forse più esplicito i due pilastri della sua ricerca: l’andare e il cantare; il viaggio e la parola intesa come affermazione ma anche come canto lirico, aereo. È qui che il poeta gioca e si riposa, ed è da qui, da questa costruzione a nido d’aquila, che l’artista ci fa prendere il volo.
Poco lontano, la Casa araba si nasconde fra palme e bouganvilles. È qui che troviamo i Fazzoletti di terra. Un titolo ricco di rimandi (il lembo di stoffa come il lembo di terra, ritaglio di deserto, il fazzoletto che asciuga lacrime di dolore ma anche di gioia, o di nostalgia) e che identifica una serie di tessuti in cotone provenienti da diversi luoghi d’Iran visitati da Prisca Groh. Attraverso il ricamo, tecnica che riflette una lunga tradizione di lavoro femminile, l’artista crea ritmi corrispondenti agli estratti topografici di questi luoghi privilegiati, brevi racconti fra terra e cielo, a metà fra planimetria e costellazioni. Sono nati per essere esposti in sequenze seriali, incorniciati come dipinti e collocati a muro. Ma stavolta no. Stavolta, i fazzoletti hanno scelto di essere fazzoletti, il tessuto tessuto. Nella stanza dall’arco dorato e dalle piastrelle azzurre e bianche, si sono liberati delle cornici e si sono adagiati per terra, sui tappeti, come nelle tende dei nomadi. Hanno cambiato contesto e adesso appartengono allo spazio, lo vestono, e nel contempo se ne distaccano in uno slittamento leggero; narrano – cantano – di sentieri persiani veri e insieme ricreati, trascesi. Di altri percorsi possibili. Mappe leggendarie, si diceva, che si rispecchiano nel trittico al muro. Sì, perché quello che potrebbe a prima vista sembrare un dipinto geometrico, freddo, inatteso nell’atmosfera di questo viaggio nel viaggio, è in realtà la rappresentazione topografica della piazza di Teheran, quella con la Torre Azadi, la Torre della Libertà. In questo rimando da una traccia all’altra, dalle stoffe alla tela, libertà è un’altra parola dal campo semantico immenso, piena di luce, e al tempo stesso sempre più dura e più vuota. Non come le strade rosa, linee che dividono la superficie del dipinto. Non erano vuote, quelle strade di Teheran, non era vuota la via Kargar quel giorno di giugno in cui Neda Agha-Soltan fu uccisa da un cecchino, forse appartenente alla milizia Bassidji, nel corso di una delle manifestazioni di protesta seguite alle contestate elezioni presidenziali iraniane del 2009. Neda: il cui nome in persiano significa “voce”.
Voce-parola. Voce-canto. E voce di donna in un viaggio di donne.
The Power of the Voice, la forza di questa voce, invade come un’eco silenziosa la Casa egizia, la riproduzione in scala del tempio di Nefertiti, l’alcova in cui riposano le ceneri dei coniugi Scherrer. I gigli selvatici incisi su vetro, la finezza e la fragilità del segno fra luce e ombra, sono un omaggio a tutte le donne che hanno utilizzato o utilizzano la parola come mezzo per difendere i diritti umani, la libertà e la pace. Donne che hanno osato parlare. Donne famose e donne sconosciute. Donne rimaste vittime, come Neda, del loro stesso coraggio e donne che non smettono di battersi. Ma sono anche, i gigli, un potente richiamo alla vita e oltre: tutto finisce e ricomincia nel passaggio dalla luce all’ombra, un’ombra che nasce dalla luce e permane dopo la luce, e che racchiude in sé qualcosa di possente, di universale e di sacro.
Il sacro… che parole evoca il sacro? Gesto, rito, cerimonia… Ecco, è soprattutto il gesto che interpella ora l’artista. Nel Padiglione del Siam i gesti rituali che accompagnano la cerimonia del tè si mutano nel gesto delle mani che toccano, sfiorano, accarezzano la tomba di Hafiz. Sì, perché l’Iran non è soltanto violenza, sangue, repressione: è anche pellegrinaggio sulla tomba di un poeta! Le mani danzano, sole o in gruppo, sul sarcofago in pietra meravigliosamente scolpito e disegnano una coreografia sorprendente ed emozionante. Una dimensione puramente spirituale.
Fuori fa ancora caldo, il vento è leggero, la luce un po’ più ambrata, adesso, il giorno scorre adagio. La vegetazione è cambiata, si è fatta più esotica, umida, misteriosa.
Percorsi di sogno, percorsi di memoria… Avanti per scale e vialetti, statue, colonne e laghetti, intrichi di rami e di foglie. Non si sa esattamente se là, più avanti, la costruzione che appare è proprio la Casa indiana, ma immaginiamo che sia quella: un’infilata di elefanti di pietra ed eccoci qui, le finestre alte, le decorazioni come i mosaici del Taj Mahal. Tappeti rossi a terra, dai disegni fantastici. E, fra loro, un tappeto altro, un tappeto di fotografie, un tappeto di memorie. Con gli scatti realizzati da Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach oltre settant’anni fa dentro il sacco, l’artista ha percorso l’Iran alla ricerca degli stessi punti di vista per scattare le “stesse” fotografie. Le esperienze, visive ed esistenziali, reali e immaginate, si intessono in una trama di presente e di passato, di ricordo e di visione. È un album che non si può sfogliare. È un album in cui vagabondare.
Usciamo, ci inventiamo una terrazza erbosa dove sederci a contemplare i giochi d’acqua di una fontana e quelli del sole sul lago. Non è più importante dove ci troviamo adesso: tutto il giardino è ormai una sorta di hortus conclusus di meditazione silenziosa, in cui ogni lavoro ha un suo posto preciso, come fosse lì da sempre, come se la mano che l’ha plasmato, appoggiato, adagiato non contasse più. E si è tramutato in uno sguardo diverso sul mondo, il giardino. Uno sguardo capace di stanare la bellezza e la poesia in una realtà sempre più cacofonica e sguaiata, di trasmetterne la valenza estetica, interiore e trasgressiva, per renderle finalmente partecipi del quotidiano.
Stare dentro il giardino è stare dentro il lavoro e viceversa. È immergersi in una riflessione in cui l’atto del riflettere come azione di pensiero si sovrappone all’atto letterale del rispecchiare un’immagine. Di fronte a ogni Dignità, è alla nostra responsabilità che pensiamo, ed è noi stessi che vediamo. L’immagine di noi.
Perché siamo tutti noi, oggi più che mai, a doverci ricreare ogni giorno. Un passo dopo l’altro, su sentieri visionari, per ridare un nome a tutte le cose.
Paola Tedeschi-Pellanda
Confignon (Ginevra) giugno 2017